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CONDOMINIO E OBBLIGO DI RENDICONTO

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Con la riforma del condominio (Legge n. 220/2012), il legislatore ha introdotto nel codice civile una disposizione sul cosiddetto Rendiconto condominiale: con il nuovo articolo 1130-bis c.c., infatti, sono stati resi ufficiali importanti criteri guida che riguardano il contenuto e le norme tecniche che disciplinano tale fondamentale strumento. L’amministratore di condominio, al pari di ogni mandatario di interessi altrui, ha l’obbligo di rendere al mandante il conto dell’attività da lui esercitata. Deve cioè fornire una corretta e analitica informazione relativamente alle spese assunte nell’interesse comune, nonché alla gestione del denaro dei diversi proprietari. In particolare, “’obbligo di rendiconto è legittimamente adempiuto quando chi vi sia tenuto fornisca la prova, attraverso i necessari documenti giustificativi, non soltanto delle somme incassate e dell’entità causale degli esborsi, ma anche di tutti gli elementi di fatto funzionali alla individuazione e al vaglio delle modalità di esecuzione dell’incarico, onde stabilire se il suo operato si sia adeguato a criteri di buona amministrazione (Cassazione Civile, 14 novembre 2012, n. 19991). La riforma, oltre ad incidere sulla professionalità e sulle conoscenze giuridiche dell’amministratore, ha anche modificato gli obblighi di quest’ultimo verso i proprietari, soprattutto per quanto concerne le modalità di gestione, non tanto e non solo dei beni condominiali ex art. 1117 c.c., ma, in modo particolare, delle somme gestite in entrata e in uscita e delle modalità di descrivere l’uso di detti introiti. Il rendiconto viene comunemente chiamato consuntivo o anche bilancio consuntivo. Si tratta di un documento contabile che deve essere impostato in modo tale da distinguere spese ordinarie e spese straordinarie. Il rendiconto è composto dai seguenti elementi: il registro di contabilità; il riepilogo finanziario; una nota di accompagnamento sintetica, esplicativa della gestione annuale. Il rendiconto va presentato almeno una volta all’anno all’assemblea ordinaria e deve essere da quest’ultima approvato. A questo proposito, la convocazione dell’assemblea dev’essere fatta entro 180 giorni dalla chiusura dell’esercizio annuale. L’eventuale omissione può comportare la revoca giudiziale dell'amministratore, trattandosi di grave irregolarità; nel caso in cui dovesse pendere un provvedimento giudiziale di revoca, le delibere di approvazione tardiva dei rendiconti, eventualmente adottate nelle more del procedimento in questione, non varranno a sanare l'inadempimento dell'amministratore, il quale ha tra le sue funzioni fondamentali, quella di rendere il conto della propria gestione. L'amministratore di condominio ha il dovere di fare transitare tutte le entrate e le uscite dal conto corrente del condominio allo scopo di permettere l'immediata verifica della situazione attraverso un semplice controllo fra registro di contabilità e conto corrente condominiale. Nell’ambito del condominio, infatti, vige un obbligo di tracciabilità delle operazioni contabili in entrata e in uscita, o meglio, più che un obbligo di tracciabilità, si tratta di un obbligo a carico dell'amministratore, imposto ex lege, di avere una contabilità tale da permettere un riscontro o una verifica immediata delle operazioni contabili in entrata e in uscita, che si fonda su una semplice operazione di confronto fra il registro di contabilità e l'estratto conto corrente condominiale. Mediante il rendiconto condominiale vengono giustificate le spese addebitate ai condomini, ragione per la quale il conto consuntivo della gestione condominiale non deve essere strutturato in base al principio della competenza, bensì a quello di cassa; l'inserimento della spesa va pertanto annotato in base alla data dell'effettivo pagamento, così come l'inserimento dell'entrata va annotato in base alla data dell'effettiva corresponsione. La mancata applicazione del criterio di cassa non rende intelligibile il bilancio e riscontrabili le voci di entrata e di spesa e le quote spettanti a ciascun condomino. Il criterio di cassa, in base al quale vengono indicate le spese e le entrate effettive consente infatti di conoscere esattamente la reale consistenza del fondo comune. Laddove il rendiconto sia redatto, invece, tenendo conto sia del criterio di cassa e che di competenza, cioè indicando indistintamente, unitamente alle spese ed alle entrate effettive, anche quelle preventivate senza distinguerle fra loro, può sussistere confusione (Cassazione Civile, sez. II, 30 ottobre 2018 n. 27639). A proposito dell’obbligo di rendiconto, è importante annoverare un’altra pronuncia della Suprema Corte, secondo cui l’obbligo di rendiconto che, quale mandatario con rappresentanza dei condomini, l’amministratore è tenuto a osservare con riferimento alle somme detenute per conto del condominio, può dirsi adempiuto quando egli abbia fornito la prova, attraverso i necessari documenti giustificativi, non soltanto della somma incassata e dell’entità e causale degli esborsi, ma anche di tutti gli elementi funzionali all’individuazione e al vaglio delle modalità di esecuzione dell’incarico, onde stabilire se il suo operato si sia adeguato, o meno, a criteri di buona amministrazione. Nella specie, la S.C., in una fattispecie anteriore all’entrata in vigore della Legge n. 220 del 2012, ha confermato la decisione di merito che, sulla base delle prove raccolte nel processo, aveva ritenuto raggiunta la dimostrazione del versamento di una somma di pertinenza del condominio su un conto corrente di gestione intestato all’amministratore e del suo successivo impiego per coprire passività condominiali. (Cassazione Civile, sez. VI, 17/01/2019, n. 1186). L’obbligo dell’amministratore di provvedere alla redazione del rendiconto annuale sulla gestione, non vincola lo stesso a depositare la documentazione giustificativa, dal momento che i condomini intervenuti possono prendere visione o estrarre copia a proprie spese. L’obbligo di presentazione del rendiconto è indipendente dalla nomina di un nuovo amministratore o dalla riconferma di quello precedente, in quanto trattasi di elementi che non incidono affatto sulla rendicontazione. È doveroso, però, evidenziare che, a tutela del proprietario, la nomina, oppure la riconferma, dell'amministratore di condominio è fortemente collegata alla presentazione dei rendiconti, dunque, è opportuno che i proprietari non riconfermino l'amministratore in ritardo con la presentazione dei rendiconti.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


LA PROVA DELL'USUCAPIONE

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È possibile acquistare la proprietà di un immobile non soltanto con un contratto di vendita, una donazione o una successione ereditaria. La proprietà si trasferisce, infatti, anche attraverso l’usucapione e, in tal caso, non occorre il consenso del titolare. L’usucapione è un modo di acquisto a titolo originario della proprietà mediante il possesso continuativo ventennale del bene immobile. La legge richiede che tale possesso debba caratterizzarsi inoltre per il fatto di essere pacifico e pubblico, non occorrendo tuttavia che sia in buona fede. Il possessore può ben essere a conoscenza dell’esistenza del diritto di proprietà altrui sul bene. L’usucapione non è una sanzione per chi non utilizza i propri beni, bensì una sorta di premio per chi, invece, se ne prende eventualmente cura per un ventennio atteggiandosi a proprietario. Quindi, oltre al disinteresse del titolare, è necessario anche un comportamento attivo di un terzo volto a trarre dal bene in questione tutte le utilità che solo il proprietario avrebbe diritto a ottenere. Sono tre gli elementi fondamentali dell’usucapione: 1) un possesso per oltre 20 anni del bene altrui; 2) l’utilizzo di tale bene con esercizio dei poteri che solo un proprietario potrebbe vantare; 3) la mancata rivendicazione del proprio bene da parte del proprietario. A tal fine non basta una lettera di diffida, ma è necessario l’avvio di una causa in tribunale volta ad ottenere la restituzione dell’immobile (è sufficiente anche la semplice notifica dell’atto di citazione). Se manca anche uno solo di questi tre elementi, non si può avere usucapione. Facciamo un esempio. Tizio ha ottenuto una casa in affitto. Per 20 anni, il proprietario lo lascia dentro l’immobile, ma Tizio, seppur saltuariamente e con lunghi ritardi, paga il canone di affitto. In questo caso, non ci può essere usucapione perché il comportamento di Tizio non è quello tipico di un proprietario: la corresponsione del canone di locazione costituisce, infatti, il riconoscimento di un diritto altrui. Nell'ipotesi di acquisto in buona fede di beni immobili e di universalità di mobili da soggetto non proprietario (acquisto a non domino), l'usucapione può essere invocata dopo dieci anni dalla data della trascrizione, purché sussista un titolo idoneo al trasferimento e debitamente trascritto; cinque anni nel caso in cui oggetto del suddetto trasferimento sia un fondo rustico. In generale, per provare l’usucapione del bene possono essere utilizzati tutti i mezzi di prova messi a disposizione dall’ordinamento. Colui che invoca l’intervenuto acquisto per usucapione ha l’obbligo di fornire la prova rigorosa di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, allegando e dimostrando il momento e le modalità di acquisto del possesso, non essendo sufficiente a tal fine la generica dichiarazione di aver posseduto per oltre vent’anni (Trib. Castrovillari, 04/03/2020, n. 253). La prova deve riguardare soltanto il momento iniziale in cui tale situazione si è verificata e non tutto l’arco dei 20 anni. Dunque, i 20 anni decorrono dal primo atto di utilizzo del bene secondo il diritto che solo un proprietario potrebbe vantare. Secondo la giurisprudenza maggioritaria, la prova dell’usucapione deve essere particolarmente rigorosa: infatti, si tratta pur sempre di un comportamento che priva il legittimo proprietario di un bene che gli appartiene, pertanto le prove dovranno essere tali da giustificare la perdita della proprietà altrui. La Suprema Corte, con ordinanza n. 6688 del 7 marzo 2019, ha stabilito che: “Ai fini dell’usucapione è necessaria la manifestazione del dominio esclusivo sulla cosa da parte dell’interessato attraverso un’attività contrastante e incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della prova su colui che invochi l’avvenuta usucapione, non essendo sufficienti atti soltanto di gestione consentiti o tollerati dal proprietario, perché comportanti solo l’erogazione di spese per il miglior godimento della cosa”. Colui che agisce in giudizio per ottenere di essere dichiarato proprietario di un bene, dichiarando di averlo usucapito, è obbligato a fornire la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e, dunque, non soltanto del corpus, ma anche dell’animus. Oggi l’usucapione, oltre che mediante testimonianza, può essere accertata anche attraverso la mediazione civile stragiudiziale. Quest’ultimo è il metodo di gran lunga più consigliato, non solo perché è meno costoso (le spese sono proporzionate al valore del bene usucapito), ma anche in quanto consente di decidere la questione più celermente (entro 3 mesi). Alla procedura di mediazione devono partecipare i titolari originari della proprietà del bene e il soggetto che lo ha usucapito, entrambi assistiti dagli avvocati. Ai sensi dell’articolo 2643, comma 12 bis, del Codice Civile (intitolato “Atti soggetti a trascrizione”) devono essere obbligatoriamente trascritti innanzi al notaio “gli accordi di mediazione che accertano l’usucapione con la sottoscrizione del processo verbale autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.” La funzione della trascrizione è quella di rendere l’accertamento dell’usucapione conoscibile a tutti, certa e opponibile a terzi in caso di controversie sulla proprietà del bene.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


APERTURA ABBAINO SU TETTO CONDOMINIALE: OCCORRE L’AUTORIZZAZIONE DELL’ASSEMBLEA?

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L’abbaino è un vano di dimensioni contenute, costituito da una sopraelevazione realizzata su una parte del tetto, avente, quale funzione principale, quella di agevolare l’accesso al tetto stesso, al fine di permettere le opere di manutenzione relative ad elementi (ad esempio, cornicioni) e, quale funzione secondaria, quella di fornire aria e luce ai locali sottostanti. Il proprietario dell'ultimo piano è libero di realizzarlo, anche se a determinate condizioni. Ciò è consentito dall'articolo 1102 del codice civile, che consente a ciascun condomino di servirsi della cosa comune, apportando a proprie spese le modifiche necessarie per il suo miglior godimento. Tale disposizione riecheggia anche nella sentenza del Tribunale di Milano, n. 601 del 28 febbraio 1991: “Il proprietario del solaio o sottotetto può aprire nel tetto abbaini per dare aria e luce ai locali sottostanti quando l'abbaino sia costruito a regola d'arte e non pregiudichi la funzione di copertura del tetto, né leda altrimenti il diritto degli altri condomini, in quanto l'esercizio di tale facoltà rientra nelle modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa”. Conseguentemente, spiega la sentenza, non c’è “bisogno del consenso della maggioranza dei condomini”. Ciò significa che la delibera che eventualmente vieti al condomino di fare un simile lavoro deve reputarsi illegittima. L’importante è che l’opera non pregiudichi la funzione di copertura e non determini un rischio per la stabilità del palazzo. Ad esempio, un lavoro fatto in modo non adeguato determina spesso infiltrazioni di acqua che, dal lastrico solare, potrebbero giungere fino alle scale o negli altri appartamenti privati. In quel caso, ad essere responsabile è l’autore degli interventi che dovrebbe risarcire i danneggiati. A proposito della realizzazione dell’abbaino da parte di un singolo condomino, è importante annoverare anche la sentenza n. 17099/2007 della Suprema Corte: “Le modifiche alle parti comuni dell’edificio (contemplate dall’art. 1102 c.c., comma 1) possono essere apportate dal singolo condomino nel proprio interesse ed a proprie spese al fine di conseguire un’utilità maggiore e più intensa: sempre che non alterino la normale destinazione della cosa comune e non ne impediscano l’altrui pari uso”. Prima di realizzare l’opera, sia il privato che il condominio, devono richiedere le autorizzazioni amministrative necessarie, previste dal comune e dalla regione dove è stato realizzato l’edificio. Nel caso in cui la proprietà è condominiale (cioè quando è di uso comune), per l’apertura di un abbaino è necessaria l’approvazione dell’assemblea. Dal momento che l’operazione richiede una trasformazione parziale del tetto, la modifica deve essere riconosciuta quale innovazione e, di conseguenza, l’assemblea può deliberare a riguardo esclusivamente con le maggioranze previste dagli artt. 1120-1136 del codice civile e, comunque, nel rispetto del decoro architettonico dell’edificio. In particolare, il secondo comma dell’art. 1120 c.c. stabilisce che: “Sono vietate le innovazioni che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino”. La giurisprudenza ormai costante afferma che per innovazione (istituto richiamato dall’art. 1120 C.C.) "deve intendersi non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune, ma solamente quella modificazione materiale che ne alteri l’entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria, mentre le modificazioni che mirano a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa comune e ne lasciano immutate la consistenza e la destinazione, in modo da non turbare i concorrenti interessi dei condomini, non possono definirsi innovazioni nel senso suddetto (richiamando l’art. 1102 C.C.)” (Cfr. Cass. Civ., sentenza 5 novembre 2002, n. 15460, Cass. Sez. II, sentenza 23 ottobre 1999 n. 11936, Cass. Sez. II, sentenza 23 ottobre 1998, n. 8622, Cass. Sez II Sentenza 11 gennaio 1997, n. 240, Cass. Sez. II, sentenza 5 novembre 1990, n. 10602, Cass. Sez. II, sentenza 29 luglio 1989, n. 3549). Ne consegue che nel condominio negli edifici, le modifiche alle parti comuni del fabbricato, di cui all'art. 1102 cod. civ., possono essere apportate dal singolo condomino, nel proprio interesse ed a proprie spese, nonché indipendentemente dal consenso degli altri condomini, al fine di conseguire un uso più intenso della struttura modificata, sempre che gli interventi operati su questa non ne alterino la destinazione e non comportino impedimento all'altrui pari possibilità di uso (cfr., "ex plurimis", Cass. Sez. II civ., sent. n. 1554 del 20.2.1997).

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


I MURI PERIMETRALI IN CONDOMINIO

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I muri perimetrali sono parti comuni di un edificio condominiale che delimitano gli spazi in essi compresi. È per questa ragione che possono essere usati dai condòmini a loro vantaggio, a patto che vengano rispettate delle regole specifiche. Fino all'entrata in vigore della legge n. 220 del 2012, in assenza di una espressa menzione nel corpus normativo, è stata la giurisprudenza a considerare i muri perimetrali tra quelle parti dell'edificio che devono essere considerate comuni. Nella definizione di muro perimetrale rientra anche quella di muro di confine, espressione con cui si fa riferimento a quello che ha la funzione di delimitare una determinata proprietà. È bene precisare che, tuttavia, quest’ultima non è una regola generale, nel senso che è ben possibile che il muro perimetrale di un edificio in condominio non sia anche il muro di confine dell’intera proprietà condominiale: può accadere, infatti, che tra edificio e pubblica via vi siano piccoli spazi destinati a cortile, a parcheggio o, comunque, zone di passaggio tra il muro perimetrale e l’effettivo confine tra proprietà privata (condominiale) e proprietà pubblica. Inoltre, può non essere presente un muro di confine, bensì soltanto uno spazio privato (sempre del condominio) fra muro perimetrale e strada pubblica. I muri perimetrali sono da considerare comuni a tutti i condòmini anche nelle parti che si trovano in corrispondenza dei piani di proprietà singola ed esclusiva e quando sono collocati in posizione, avanzata o arretrata, non coincidente con il perimetro esterno dei muri perimetrali esistenti in corrispondenza degli altri piani, come normalmente si verifica per i piani attici. La giurisprudenza fa rientrare i muri perimetrali nella categoria dei muri maestri sul rilievo che, pur non potendo essere considerati strutture portanti dell’edificio, essi sono comunque essenziali per l’esistenza di quest’ultimo, delimitandone la consistenza volumetrica e delineandone la sagoma architettonica (Cass. 21-2-1978, n. 839). Con la conseguenza che i muri perimetrali degli edifici in cemento armato devono essere ricompresi fra i muri maestri definiti comuni dall’art. 1117, n. 1, c.c., in quanto, in assenza di essi, il fabbricato altro non sarebbe che uno “scheletro” vuoto, privo di alcuna utilità (Cass. 7-3-1992, n. 2773). Poiché i muri perimetrali sono parti comuni dell’edificio, l’uso che i condòmini possano farne deve rispondere al criterio fissato dall’art. 1102 c.c., secondo cui ciascun condòmino può utilizzare il bene comune nella misura in cui non ne alteri la destinazione e non leda il diritto di ciascun condòmino di farne parimenti uso. Sono vietate tutte quelle opere che possano compromettere la sicurezza dello stabile. È legittimo il comportamento del condòmino che crei un incavo nel muro perimetrale comune al fine, ad esempio, di eseguire tracce o canali per incassare impianti elettrici (Trib. Milano 24-6-1991), così come è lecito l’abbattimento di un tratto di muro comune al fine di creare un nuovo ingresso che serva la proprietà esclusiva di un singolo condòmino (Cass. 29-4-1994, n. 4155). L’abbattimento di un muro perimetrale comune, tuttavia, incidendo sulla sostanza essenziale della cosa, non rientra nell’ambito disciplinato dall’art. 1102 c.c., ma costituisce una vera e propria innovazione, soggetta alle regole dettate dall’art. 1120 c.c. (Cass. 18-6-1982, n. 3741). Dal momento che i muri perimetrali sono condominiali, tutti i condòmini devono partecipare alle decisioni inerenti alla loro conservazione e tutti alle spese per l'esecuzione degli interventi medesimi. In assenza di patti contenuti in un regolamento contrattuale o in un accordo sottoscritto comunque da tutti i condòmini, le spese per le opere di manutenzione dei muri perimetrali dell'edificio devono essere suddivise tra i condòmini sulla base dei millesimi di proprietà.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


ASSEGNO DI MANTENIMENTO AI FIGLI: PER LA CASSAZIONE, TERMINATI GLI STUDI, È OBBLIGATORIO RENDERSI AUTONOMI

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Finiti gli studi, i figli hanno il dovere di trovare un’occupazione e rendersi autonomi. Senza coltivare velleità incompatibili con il mutato mercato del lavoro, in quanto l’assegno di mantenimento ha una funzione educativa e non è un’assicurazione. Ciò è quanto recentemente espresso dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 17183 del 14 agosto 2020. Si tratta di un provvedimento, apparentemente volto solamente a porre dei limiti temporali al diritto dei figli maggiorenni ad essere mantenuti dei genitori, ma che prende, in realtà, una posizione del tutto innovativa su diversi aspetti direttamente e indirettamente collegati al mantenimento dei figli di qualsiasi età, ai diritti-doveri dei genitori e all’affidamento condiviso. L’ordinanza 17183/2020 costituisce una tappa fondamentale nell’interpretazione delle norme sull’affidamento. La quaestio nasce dal ricorso di una madre che contestava una decisione della Corte di Appello, con la quale veniva revocato l’assegno di mantenimento, versato per anni dall’ex marito, al figlio trentenne. Il ragazzo in questione è un insegnante di musica precario, il quale percepisce circa 20mila euro all'anno come supplente. Gli ermellini hanno revocato anche l'assegnazione della casa coniugale. La ratio è chiara: l’assegno di mantenimento non ha una funzione di assistenzialismo, bensì deve servire per responsabilizzare i ragazzi. Pertanto i figli, terminati gli studi, non possono inseguire per sempre le proprie aspirazioni contando sul sostegno dei genitori. Dunque, nonostante i contratti precari, gli stipendi bassi e i mutui quasi impossibili da ottenere, i figli devono cercare di rendersi indipendenti da questi ultimi. La Cassazione ha sottolineato che una rivoluzione culturale è necessaria anche nel rapporto genitori-figli. Ciò significa che si deve passare da un’ottica di assistenzialismo, dalla quale trarrebbero vantaggio quelli che vengono denominati in modo dispregiativo “bamboccioni”, a quella di una diffusa autoresponsabilità. In questo caso, secondo i giudici, spettava al trentenne "ridurre le proprie ambizioni adolescenziali" e fare i conti con la realtà. Al di sopra dei trent’anni è lecito presumere che un figlio abbia completato la propria formazione, nonché abbia avuto il tempo per trovare di che mantenersi. La Corte, prendendo le distanze dalla prassi, sostiene che le ambizioni di un figlio ben possono ridimensionarsi in nome della dignità di una propria autonomia e in nome dell’obbligo morale di non chiedere propri genitori un sacrificio maggiore di quello che si è disposti a fare in prima persona. E dà risposta anche al diffuso alibi dei maggiorenni: non avere trovato una occupazione adeguata alle ambizioni legittimamente coltivate, visti i propri titoli di studio, prendendo le distanze anche da precedenti di legittimità (ad. es. Cass 1830/2011, che subordina la rinuncia al contributo alla "percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita"). Per la Suprema Corte, la maggiore età si associa alla capacità di adattarsi a svolgere un lavoro che renda autosufficienti. E anche per gli studenti che si laureano in ritardo il tribunale ha richiamato esplicitamente il divieto di "abuso di diritto": occorre laurearsi in tempo, evitando in tal modo di allungare i tempi. Questo principio era già stato precedentemente chiarito da un’altra pronuncia della Corte di Cassazione, ossia la sentenza numero 3659 del 13 febbraio 2020: un genitore che abbia versato all'ex coniuge l’assegno di mantenimento per i figli, dopo che questi hanno raggiunto la piena autonomia, ha diritto alla restituzione di quel denaro. I genitori insomma posso chiedere un risarcimento, e la legge sarebbe dalla loro parte. La Corte ha sottolineato che l’erogazione dell’assegno di mantenimento nei confronti del figlio maggiorenne, ma economicamente non autosufficiente, è subordinata alla valutazione da parte del giudice di una serie di circostanze, come, ad esempio, la durata effettiva del percorso di studi intrapreso, la compatibilità dello stesso con le possibilità economiche dei genitori, le occupazioni del soggetto interessato e il tempo mediamente necessario a trovare un lavoro retribuito al termine degli studi. Al fine della valutazione, assume particolare importanza anche l’età del figlio. In particolare, i giudici hanno stabilito che il rigore adottato nella valutazione dovrà essere proporzionale all’età dei beneficiari, in modo da evitare che l’obbligo di versamento venga protratto per troppi anni, scongiurando così fenomeni che la giurisprudenza ha definito di “parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani” (Cass. 6 aprile 1993, n. 4108). Il recente provvedimento della Cassazione rappresenta una pietra miliare nella storia recente del diritto di famiglia, collocandosi fra le tre più importanti decisioni che disciplinano l’affidamento condiviso, insieme alla sentenza n. 16593 del 2009 - che affermava l’irrilevanza della conflittualità tra i genitori ai fini dell’applicazione dell’istituto - e alla n. 23411 del 2008, che riconosceva la priorità della forma diretta del mantenimento e la residualità dell’assegno.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'